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LITTLE RICHARD: IL PRIMO RE DEL ROCK

di Giuliana Prestipino

Little Richards: I Am Everything, di Lisa Cortés
Sabato 24/02 • 18:15 | Cinema Massimo


Little Richard ha vissuto abbastanza a lungo per poter constatare con i suoi occhi che è stato l’artefice del rock ‘n’ roll e di tutte quelle forme di spettacolarizzazione della musica che nel tempo hanno partorito idoli sempre nuovi, da Elvis Presley a Harry Styles passando per David Bowie, Mick Jagger, Michael Jackson, Prince e Freddie Mercury. Se Little Richard si è sempre autocelebrato e autoincoronato re, o meglio regina, del rock ‘n’ roll, è dovuto non solo alla sua natura eccentrica e megalomane, ma soprattutto alla tiepida accoglienza dello star system e della società dell’epoca, che non gli hanno mai veramente tributato gli onori e le fanfare che sapeva di meritarsi.

Il travolgente documentario I Am Everything di Lisa Cortés non solo riflette l’autenticità del personaggio in tutte le sue contraddizioni e l’eredità culturale che ha lasciato ai posteri, ma allo stesso tempo racconta qualcosa dell’America nel momento in cui esplode il rock: il culto della personalità nell’arte, che in alcuni casi sovrasta la creatività (come è stato per Elvis e altri personaggi che potevano incarnare il perfetto sogno americano) e lo scontro/incontro razziale. Little Richard era talento puro, ha scritto successi che sono diventate pietre miliari del rock ‘n’ roll, pezzi come Tutti Frutti, Long Tall Sally, Rip It Up, Lucille e Good Golly Miss Molly, interpretandoli con quell’inconfondibile vena ribelle e scatenata, con una carica elettrizzante fuori dal comune, urla strozzate in bilico tra falsetto e singhiozzo, condite sempre da una spruzzata di folle esaltazione e una presenza scenica dirompente.

Il pubblico era ammaliato, l’industria della musica e il perbenismo imperante un po’ meno. Perché? Perché era nero, stravagante, ambiguo, effeminato, truccato, con un gran ciuffo, i suoi testi trasudavano sesso, nelle sue prime esibizioni era in compagnia di Drag Queen e come se non bastasse aveva un talento innato nel far ballare insieme bianchi e neri, facendo dimenticare il rigido muro segregazionista che li teneva divisi. Il fatto che rappresentasse una minaccia lo dimostra il successo della versione puritana ed edulcorata di Tutti Frutti di Pat Boone e poi quella di Elvis che riuscirono a oscurare l’originale, oppure il grande riscontro commerciale di Fats Domino, altro talento afroamericano ma di tutt’altra pasta, rassicurante nel suo aspetto bonaccione e nello stile, sempre carico sì, ma non bizzarro e sovversivo.

È stato una supernova sgargiante che, esplodendo nel suo ritmo infuocato, ha generato una polvere di stelle, stelle del rock che sono una sua diretta emanazione, declinazioni della sua essenza sotto forme e sembianze diverse  e che hanno  cambiato il firmamento della musica. Little Richard ha vissuto abbastanza a lungo per riconoscere tracce del suo stile in tantissimi artisti che lo hanno succeduto e che hanno ammesso, chi più chi meno coscienziosamente, il debito nei suoi confronti, da Prince a Elton John. Tra i più riconoscenti i Beatles, Mick Jagger, che ha conosciuto prima che il successo li travolgesse, e David Bowie. 

Se  la nascita del glam rock si fa partire tradizionalmente nel 1971 con l’esibizione di Marc Bolan dei T. Rex con il singolo Hot Love nel programma inglese Top of the Pops, allora Little Richard aveva ragione ad autocelebrarsi come l’emancipatore, l’architetto e l’iniziatore di tutto. Perché, se Bolan ha scosso i benpensanti con la sua tutina argento e il trucco glitterato negli anni Settanta, Little Richard lo aveva fatto molto prima. Addirittura durante una tournée del 1966 si presentò vestito da palla stroboscopica! È stato l’iniziatore di tutta quell’estetica che ancora oggi cerca di disintegrare i limiti ristretti tra i generi sessuali a colpi di travestitismo sgargiante e spettacolarizzazione della bisessualità, che poi è il linguaggio camp, che Bowie più tardi, ispirandosi a lui, portò alle sue estreme conseguenze in un dichiarato sdoppiamento di personalità senza i sensi di colpa di Richard.

Little Richard ha sempre faticato a rapportarsi con questa sua natura queer, tant’è che all’apice del successo si ritirò dalle scene per seguire una folgorante vocazione religiosa. Tornò sulle scene qualche anno dopo più sgargiante che mai, ma sempre in bilico tra il peccato e la smania di redenzione. Ma in questo suo viaggio scintillante di eccessi e contraddizioni, di ricerca sempre sul filo del rasoio tra sacro e profano, ha saputo costruire con un grande atto di generosità l’altare del puro spettacolo, diventando il pastore indiscusso di  quel rito collettivo che aiuta a liberarci, più che dai peccati, dai tabù e dalle restrizioni mentali.