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SYSPEDIA – “Last days” di Gus Van Sant

COBAIN OR NOT COBAIN?

IMG_4898di Umberto Mosca

Si sa che un film è sempre il frutto di un compromesso tra il discorso dei suoi autori e le risorse disponibili per la sua produzione, ma il caso che stiamo trattando sembra non voler confermare questa regola. Last Days di Gus van Sant, uscito nel 2005, è entrato nella storia del cinema come il film su Kurt Cobain e i Nirvana che fa assolutamente a meno della loro musica. Se è per questo, l’opera fa disinvoltamente a meno dei nomi stessi dei tre singoli musicisti della band, che qui si chiamano in un altro modo, nonostante le didascalie finali sottolineino in maniera esplicita la fonte di ispirazione. Un tale contrasto tra l’intenzione e gli strumenti utilizzati per realizzarla costituisce il valore straordinario del film di Van Sant nell’ambito di una produzione che non è solamente quella dell’opera di ispirazione rock. Last Days, infatti, trae la sua forza dalla scelta di mettere in scena un personaggio che al leader dei Nirvana morto suicida nell’aprile del ’94 si ispira solamente e che, le poche volte che suona, lo fa eseguendo la musica composta dall’attore che lo interpreta, vale a dire Michael Pitt. L’orientamento principale è evidentemente quello di sottrarsi ai meccanismi tipici del Biopic musicale, che costringono il film a muoversi su binari codificati, cine ad esempio quello immancabile della storia d’amore e del romance. Il personaggio narrato da Van Sant è invece una figura solitaria, che fugge io resto dell’umanità con la paura di un animale selvatico, e che diventa il protagonista di un avvicinamento alla vicenda umana di Cobain completamente al di fuori delle speculazioni mediatiche, cinema compreso. 

Sono brevi frammenti di grande energia, che fanno pensare alla poesia pura e fanno tornare alla mente la figura sciamanica del Jim Morrison di American Prayer. Attraverso una similitudine tra la libertà sessuale e l’intensità prodotta da poche note rarefatte, Van Sant propone una visione del rock che tende a restituirgli, in un colpo solo, il carattere della trasgressione e quello della necessità. All’azzurro freddo delle immagini televisive che, dopo la morte del personaggio, dovrebbe mettere in evidenza la certezza del gesto (“non ho più voglia di andare avanti, non voglio far parte della macchina”), Last Days preferisce sostituire un’immagine inedita, che restituisca a Cobain tutta la freschezza e la singolarità della sua avventura artistica. E allora tocca all’attore e musicista Michael Pitt suonare la sua Death to Birth (che parla di un lungo viaggio solitario “dalla morte alla nascita”, dove l’inversione dei termini esprime un evidente valore simbolico), suonando per sé stesso il suo ultimo concerto in una sala avvolta dall’oscurità e in un angolo dell’inquadratura, con il volto coperto dai capelli. Blake -come il personaggio di Dead Man di Jim Jarmusch, di cui porta il nome- ha iniziato a morire da molto tempo, e quando l’immagine del suo corpo senza vita riverso nel capanno degli attrezzi si sdoppia in un effetto di sovrimpressione, lo spettatore ha la certezza che con il Blake più fantomatico e inafferrabile torni a rivivere anche lo spirito più puro del rock.