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C’ERA UNA VOLTA L’ITALO DISCO

Di Paolo Campana

L’ascoltavamo un po’ tutti, ma non sapevamo cosa fosse. Era alla moda, ma non sapevamo se avesse un nome e soprattutto non sapevamo bene da dove venisse, visto il fiorire di strampalati nomi stranieri che la popolavano: Gary Low, Kano, Den Harrow, Cruisin’ Gang, Scotch, Ken Laszlo, Fred Ventura, Valerie Dore. Questi sono solo alcuni degli pseudonimi o prestanome dietro cui si celavano artisti, produttori o progetti musicali per lo più italiani.

L’Italo Disco, sotto genere della disco music, ha fatto incontrare diverse generazioni tra la fine degli anni ’70 e gli ’80 combinando un film di Vanzina con le feste private al sapor di limone e di I like Chopin. Uno stile che metteva insieme luci al fulmicotone, edonismo reaganiano e spirito nazional popolare, addizionato a mille bollicine. Cuba libre o whiskey e Coca?

Era una musica melodica e frizzante, a volte troppo, ragione per cui all’estero ebbe successo, ma allo stesso momento era intrigante e innovativa, grazie all’avvento di ritmiche elettroniche e di un sound avveniristico.

Arrivò persino nei club di Ibiza combinandosi con l’europop, la new wave e il synthpop contribuendo all’esplosione del balearic beat, negli States fu tra le basi, per via dei campionamenti dell’ossessivo uso dei sequencer, della techno e dell’house music, e in Germania i DJ ne fecero incetta, nell’illusione di trasportare nella fredda mitteleuropa, intrappolati tra i microsolchi di 45giri e dischi mix, raggi di sole e l’atmosfera delle calde estati trascorse come turisti in Riviera.

È proprio un luogo marino con il suo sapore di sale ad essere la culla naturale di tutta questa storia, in particolare la riviera adriatica che già aveva incorporata, con la tradizione del liscio, una certa predisposizione all’intrattenimento e alla danza.

Per la precisione fu proprio a Gabicce, nella provincia di Pesaro e Urbino, che a partire dal ’75 atterrarono come ufo i suoni che diedero il natale alla scena Disco nostrana portando freschezza nelle orecchie dei frequentatori della mitica Baia degli Angeli, una mega discoteca in cui la cabina del dj, situata in un ascensore, viaggiava incessantemente tra la pista da ballo e una terrazza sul mare. Qui i corpi sudati si muovevano animati da una miscela tra i Santana e i Kraftwerk a base di lussuosa disco-funk americana, ritmi africani, le prime esperienze del synth inglese e dosi di krautrock e musica cosmica.

Sulle ceneri di queste visioni l’esperienza discografica made in italy non tardò a concretizzarsi in una serie di primizie sfornate da produttori ancora anonimi tra i laser e i fumi de l’Altromondo Studios di Rimini e il Cellophane di Miramare.

Di qui parte il film che racconta l’epopea di questo genere dal titolo Italo-Disco. The Sparkling sound of ‘80s di Alessandro Melazzini, coprodotto da Alpenway Media GmbH e Rai, in programmazione a Seeyousound nella sezione Into the Groove.

Il documentario mette insieme come un puzzle di copertine riflessioni sul fenomeno e testimonianze di produttori, musicisti e DJ che hanno animato un’epoca o ne hanno raccolto il testimone, come i fratelli La Bionda, Sabrina Salerno, Linda Jo Rizzo (The Flirts), Pieluigi Giombini (autore de La dolce vita di Ryan Paris e di Paul Mazzolini in arte Gazebo), l’alchimista dei piatti DJ Daniele Baldelli, il produttore DJ Hell, passando dalla sociologia e il Münich Sound tra H.Von Karajan e Giorgio Moroder, sino al discografico tedesco Bernhard Mikulski che per primo coniò il termine di questo genere con una compilation pubblicata nel 1983.

Da Raf a Sandy Marton a Claudio Cecchetto, Stylóo, The Creatures, l’Italo Disco aveva personalità variegate, fittizie o vere che fossero le identità dei suoi artisti, identificate più come “nuance” di una stessa tendenza che come sottogeneri veri e propri: si passava dall’onirismo trasognante di Gazebo, al decadentismo nostalgico di Savage (alias Roberto Zanetti), al futurismo avanguardista dei Righeira, al “new romantic” di Valerie Dore (alias Monica Stucchi), al minimalismo iper-moderno di Alexander Robotnick o al funk di Pino d’Angiò.

Nuance che si perdevano nei mille rivoli tra produzioni minori e azzardi discografici, a volte al confine con la sperimentazione. Nomi come Mr.Flagio, Koto, Casco o Klein&MBO hanno apportato molto all’underground dell’elettronica negli anni a venire sino ad influenzare il suono di band come New Order e Daft Punk o il meno noto Com Truise.

L’Italo Disco era un grosso contenitore che pescava qua e là dal pop unitamente all’evolversi della tecnologia, mescolando, frullando esperienze e risputando sul mercato una miriade di singoli e LP con un duplice scopo: il successo in discoteca e nella classifica e il puro guadagno.

A questo proposito nel film fa eco più volte il nome del bergamasco Severino Lombardoni, manager della Discomagic, storica etichetta di disco dance il cui catalogo fu acquistato nel 1997 dalla tedesca ZYX Music del già citato Bernhard Mikulski.

Da qualche anno il fantasma dell’Italo Disco si aggira tra i dancefloor di tutto il nord  Europa, con le sue rarità ha amaliato collezionisti di dischi e dj americani che si sono scoperti ossessionati cultori, e ha risvegliato dal letargo i suoi artisti con eventi e compilation come quelli realizzati da I Venti D’azzurro.

Etichette indipendenti come la belga Bordello A Parigi, o progetti più circoscritti sul territorio come il Turin Dancefloor Express di I-Robots, alias Gianluca Pandullo, hanno risuscitato versioni inedite di brani conosciuti, come ad esempio una robotica versione di Vamos A la Playa di Johnson Righeira, demo originale del 1981, o titoli più o meno oscuri, come nel caso di Bagarre o Nemesy, dando il là a un fiume di ristampe su vinile.